Sono passati molti anni eppure ogni volta che mi capitano sotto mano le foto di quel manicomio mi vengono ancora i brividi.
Quelle esperienze che ti segnano e che ti restano dentro.
Per me è stato difficilissimo riuscire ad entrare e semplicissimo uscirne.
Per migliaia invece è stato semplicissimo entrare ed impossibile uscirne.
Ai tempi era davvero semplice finire in manicomio; bastava far parte di una famiglia un po’ troppo numerosa, essere poco adatti al lavoro o semplicemente balbuzienti, avere qualche piccolo difetto fisico o un quoziente intellettivo al di sotto della media, essere di intralcio nella spartizione di un terreno o di un’eredità.
Per tutti coloro nati e cresciuti in una piccola realtà rurale, il manicomio rappresentava un mondo nuovo, diverso, dove talvolta c’era anche qualcosa da imparare.
Mangiare i fiori, ingoiare le pietre, parlare con amici immaginari erano cose mai viste prima ma, dato che le facevano la maggior parte dei pazienti, erano probabilmente normali ed andavano fatte.
Ecco perché quasi nessuno superava il cosiddetto “periodo di osservazione”, quella manciata di settimane in cui i medici avevano il compito di stabilile se il soggetto fosse effettivamente pazzo.
Chi era semplicemente un po’ tonto o facilmente condizionabile, al termine di quei 30 giorni poteva definitivamente dire addio al mondo esterno, ormai per la società era un matto e come tale doveva rimanere rinchiuso.
Per molti, troppi, finire in una bara fu l’unico modo per andar via da lì.

Oltre alle fotografie, ho pensato di caricare anche un video che realizzai qualche anno fa, contenente veri filmati di repertorio e diverse interviste con i pazienti estratte dal documentario “Matti da slegare” di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli del 1975.
Un pugno allo stomaco che è giusto ricevere poiché nessuna storia va dimenticata ma utilizzata per evitare di commettere nuovamente determinati errori.

Tributo alla Follia: (Video)